I noli delle portarinfuse secche ai minimi
Contributo a cura di Ennio Palmesino ** broker marittimo L’indice Biffex delle Capesize bulkers, che aveva toccato un picco molto alto ai primi di settembre 2019 (a quota 5.043), ha iniziato in autunno una discesa progressiva, verso quota 2.000, interrotta da una ripresina che ha riportato l’indice a 3.382 il 4 dicembre. Dopodichè, in […]
Contributo a cura di Ennio Palmesino *
* broker marittimo
L’indice Biffex delle Capesize bulkers, che aveva toccato un picco molto alto ai primi di settembre 2019 (a quota 5.043), ha iniziato in autunno una discesa progressiva, verso quota 2.000, interrotta da una ripresina che ha riportato l’indice a 3.382 il 4 dicembre. Dopodichè, in concomitanza con le feste di fine anno, la discesa si è accelerata, fino a quando l’indice è entrato in territorio negativo il 31 gennaio 2020 e infine ha toccato nei giorni scorsi il livello di -294. In meno di 6 mesi l’indice è crollato di oltre 5.300 punti e attualmente si trova sotto zero.
Parlando di dollari anziché di indici, questo livello equivale a un ritorno giornaliero per una Capesize intorno ai 2.500 dollari/giorno, decisamente al di sotto dei costi vivi. Prendendo a paragone le altre bulkers, sia le Panamax che le Supramax sono scese anch’esse, ma hanno arrestato la caduta intorno al livello di 5.000 dollari/giorno.
Naturalmente gli analisti si stanno domandando cosa diavolo sia successo per causare questo crollo. Qualcuno ha citato il “cigno nero”, rappresentato dal Coronavirus, che certamente sta incidendo sui traffici da e per la Cina, ma il virus è scoppiato in gennaio, mentre le Capesize hanno iniziato la picchiata in settembre e l’hanno accelerata in dicembre.
Qualcun altro ha citato il mancato effetto positivo del “cigno bianco”, cioè l’accordo detto Fase 1 fra USA e Cina, che si sperava aprisse a nuovi traffici dry, soprattutto la soia dagli USA alla Cina, e che invece non sembra aver portato ad alcun aumento.
Grazie alla fervida fantasia degli analisti economici, qualcuno ha invece citato il “cigno verde”, cioè il passaggio obbligato dal primo gennaio a combustibili per le navi meno inquinanti, per l’esattezza al fuel oil con max 0,5% di zolfo, o in alternativa, all’adozione dello scrubber. Ma anche questo sembra non avere diretta relazione con i noli. Semmai, visti i ritardi di molti cantieri, oberati di lavoro per il montaggio degli scrubbers, si poteva pensare all’opposto, cioè a meno navi disponibili sul mercato, poiché parecchie unità dovrebbero essere ferme, in attesa del retrofit.
Infine, qualcuno ha puntato il dito sulle consegne di nuove unità, che hanno aumentato la flotta. Insomma, si dovrebbe tornare ai vecchi, cari fondamentali del mercato. Ma anche questo non sembra determinante. Nel 2019 la flotta è aumentata del 5% circa, leggermente di più dei due anni precedenti, in cui era aumentata del 3%, ma non sembra un dato catastrofico. All’inizio dell’anno nuovo, c’erano in costruzione nuove navi pari al 9,1% della flotta dry esistente, ma le consegne vanno spalmate su almeno due anni, quindi il 2020 si potrebbe chiudere con un +4-5%, mentre l’aumento dei traffici dry è previsto fra l’1% del carbone ed il 3% del minerale di ferro, con una media globale di tutto il dry pari al 2%. Certo, un altro 5% di aumento della flotta contro un 2% di aumento della domanda non è il massimo, ma di nuovo, non sembrano dati così allarmanti. Restiamo in ansiosa attesa di altre analisi.
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