Covid-19 porrà fine alla globalizzazione?
Contributo a cura di Antonella Teodoro * * consulente dei trasporti presso MDS Transmodal Negli ultimi decenni, la riduzione delle tariffe, l’alleviamento delle restrizioni commerciali e ilprogresso tecnologico nei trasporti e nelle comunicazioni, hanno portato il commercio mondiale di beni (esclusi beni energetici) a una crescita da 4,2 a 8 miliardi di tonnellate, quasi […]
Contributo a cura di Antonella Teodoro *
* consulente dei trasporti presso MDS Transmodal
Negli ultimi decenni, la riduzione delle tariffe, l’alleviamento delle restrizioni commerciali e ilprogresso tecnologico nei trasporti e nelle comunicazioni, hanno portato il commercio mondiale di beni (esclusi beni energetici) a una crescita da 4,2 a 8 miliardi di tonnellate, quasi raddoppiando, tra il 2000 e il 2019.
La globalizzazione e le pandemie sono vecchie conoscenze: esempio “quarantena” da parte di Venezia 600 anni fa. Ma i viaggi aerei, internet, la liberalizzazione degli scambi e la riduzione dei costi del trasporto merci hanno reso i Paesi molto più vulnerabili ad eventi sanitari o finanziari dall’altra parte del mondo.
La crisi finanziaria del 2008-2009, gli attacchi dell’11 settembre e ora la pandemia di COVID-19 alimentano argomenti per il “nazionalismo” con i governi preoccupati di stabilire politiche per proteggere i loro cittadini dal virus. Tuttavia, una mancata riparazione dell’attuale sistema di commercio liberale potrebbe avere conseguenze economiche più gravi a lungo termine rispetto a quelle causate dalla pandemia. La tendenza verso accordi commerciali regionali, come l’Accordo Progressivo per il Partenariato Trans-Pacifico, rappresenta un cambiamento del sistema commerciale globale più integrato lasciando barriere per i Paesi non partner e riducendo gli standard di vita globali.
L’epidemia di COVID-19 ha interrotto le catene di approvvigionamento. Le aziende sono alla ricerca di fornitori alternativi all’interno dei confini nazionali accettando prezzi più alti e quindi potenzialmente portando a una riduzione degli standard di vita. I cambiamenti nei fornitori potrebbero diventare permanentemente alimentati da un crescente impulso politico per essere meno dipendenti dal commercio internazionale.
Per i governi, tuttavia, sentirsi sicuri di escludere l’idea di intraprendere il rifiuto di un abbandono del commercio liberale e di essere convincenti agli occhi del loro elettorato sul perché sia la strategia più opportuna, essi stessi devono riconoscere quanto possa esser dannosa la fine del commercio globale. Ma il semplice fatto di garantire una vita più lunga al commercio globale non dovrebbe essere visto come la fine del processo in quanto alcune delle sue caratteristiche attuali necessitano di alcuni adeguamenti, soprattutto della riforma dell’OMC, accompagnate da politiche nazionali per rispondere alla globalizzazione e alle sue imperfezioni.
Uno dei principali fattori che indeboliscono il ruolo dell’OMC è la crescente influenza esercitata dalla Cina sulla scena internazionale. Quando i membri hanno consentito alla Cina di aderire all’organizzazione nel 2001, le economie occidentali credevano che la sua adesione avrebbe sostenuto e accelerato il suo transito in un’economia basata sul mercato portando vantaggi socio-economici per la Cina e per i Paesi che commerciano con essa. È innegabile che l’apertura della Cina al mondo abbia avuto impatti positivi: le esportazioni più economiche dalla Cina sono state un fattore importante nel ridurre il costo della vita nelle economie occidentali mentre milioni di cinesi sono usciti dalla povertà. Tuttavia, la Cina non è diventata un’economia basata sulle regole del mercato praticate in Occidente come previsto nel 2001 ed è probabile che non lo diventi dato il ruolo centrale che il suo governo mantiene nella sua economia.
Un esempio particolare delle regole dell’OMC che sono difficili da applicare alla Cina riguarda i sussidi pubblici; mentre l’OMC consente ai governi di imporre tariffe sui beni in cui si applicano sussidi espliciti alla produzione, non consentirebbe sussidi indiretti come tassi di interesse inferiori al mercato sui crediti concessi da istituti finanziari di proprietà statale.
Molti in Occidente sostengono che i costi del libero scambio non sono stati contestati: il principale è la perdita di posti di lavoro manifatturieri – questione politica importante. Concentrandosi sui beni di consumo, la tabella seguente mostra la crescita più rapida registrata dai Paesi orientali rispetto ai Paesi europei con la loro quota sul commercio totale oltre al 70%.
La pandemia e l’interruzione delle catene di approvvigionamento causate dalle misure restrittive messe in atto per limitarne la diffusione, hanno causato carenze critiche di beni e materiali essenziali evidenziando la “dipendenza” dalle fabbriche situate in paesi lontani. Ciò ha incoraggiato i paesi a pensare di più alla sicurezza e all’autosufficienza alimentati dall’opinione popolare piuttosto che ascoltare gli economisti.
Tuttavia, non si dovrebbero ignorare i vantaggi che il commercio liberale apporta: aumenta la concorrenza promuovendo l’innovazione e l’efficienza; sostiene la diffusione della conoscenza e del movimento del capitale; espande anche la varietà delle scelte di beni per i consumatori. Rifiutare la globalizzazione significherebbe respingere questi impatti positivi, ma, soprattutto, il costo dell’abbandono delle reti esistenti e degli investimenti associati creerebbe esso stesso un ulteriore shock al sistema economico già sotto pressione che peggiorerebbe la situazione attuale.
Il consolidamento delle linee di navigazione e lo spiegamento di navi più grandi ed efficienti offerte sulle rotte di acque profonde hanno portato a una sostanziale riduzione dei costi marittimi (come descritto nella seguente figura) a beneficio dell’economia globale.
Una minore integrazione del commercio globale potrebbe influire sui livelli di connettività marittima, il che potrebbe essere dannoso soprattutto per i Paesi in via di sviluppo. Una riduzione dei servizi marittimi offerti dalle linee di navigazione, al fine di adattarsi ai flussi commerciali in declino, è probabile che influisca sulla connettività del trasporto marittimo diretti per i Paesi di approvvigionamento sia in termini di servizi intercontinentali che intra-regionali. Ciò potrebbe rendere più difficile lo sviluppo economico per queste economie. La seguente figura mostra i primi 10 Paesi con i più alti aumenti dell’indice di connettività di spedizione (LSCI) tra il 2006 e il 2020.
Abbandonare il commercio liberale sarebbe un errore, non usare questo momento di crisi per riformare il sistema in cui opera sarebbe un’occasione mancata per migliorare le sue possibilità.
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