Gozzi (Duferco) a ruota libera su shipping, reshoring della siderurgia, mercato dell’acciaio e Ilva di Taranto
Di seguito pubblichiamo alcuni passaggi salienti dell’intervista pubblica che Antonio Gozzi, presidente del gruppo siderurgico Duferco, ha rilasciato al Propeller Club – Port of Genoa. Le domande sono state poste da Ezio Palmisani, amministratore delegato di Duferco Engineering. Globalizzazione e reshoring nella produzione di acciaio: nuovi assetti del sistema produttivo e impatto sugli scambi commerciali […]
Di seguito pubblichiamo alcuni passaggi salienti dell’intervista pubblica che Antonio Gozzi, presidente del gruppo siderurgico Duferco, ha rilasciato al Propeller Club – Port of Genoa. Le domande sono state poste da Ezio Palmisani, amministratore delegato di Duferco Engineering.
Globalizzazione e reshoring nella produzione di acciaio: nuovi assetti del sistema produttivo e impatto sugli scambi commerciali
“Duferco Trading è stata per più di 25 anni la prima trading company siderurgica privata del mondo con uffici in più di 60 Paesi e questo ci ha sempre garantito di avere le idee abbastanza chiare sul commercio internazionale di acciaio. La presenza globale ha sempre consentito al gruppo di cogliere le tendenze e di capire i segnali deboli che si manifestavano nel commercio internazionale.
Una tendenza alla regionalizzazione dei traffici in generale, e in particolare di quelli dell’acciaio, era già in atto prima del Covid. Basta guardare i dati del commercio internazionale per vedere che c’era stata una caduta del commercio internazionale negli ultimi 2 o 3 anni. E questa caduta anche dei traffici di acciaio era ed è legata al fatto che l’era della globalizzazione, del libero commercio e del pensiero che li sosteneva è andata un po’ in crisi generando protezionismi di vario genere. I dazi sull’acciaio di Trump sono stati quasi un simbolo di un’era non più di multilateralismo e quindi di organismi internazionali come il Wto che presiedevano all’espandersi della globalizzazione. Andava affermandosi un’era di bilateralismo, di confronto fra potenze economiche, in particolare un confronto/scontro fra Usa e Cina che aveva portato a politiche di protezionismo.
Le politiche di protezione, per un uomo di mercato quale penso di essere, sono sempre pericolose perché in realtà innescano reazioni a catena. Anche paesi e aree come l’Europa, molto legata alle regole del Wto e del libero commercio, inevitabilmente tendono a reagire ai dazi americani introducendo a loro volta misure di protezione delle produzioni interne che in Europa sono quote e quantitativi limitati d’importazione, ad esempio di acciaio da determinati paesi, o addirittura misure anti-dumping nei confronti di Paesi che praticano un dumping.
Ecco perché una delle ragioni che ha condotto all’entrata in crisi di processi di globalizzazione spinti è stato il fatto che spesso c’è stato un unfair trade. Essere cioè uomini di mercato non significa essere disponibili a subire le conseguenze di un commercio sleale, e nell’acciaio questo si è verificato tante volte.
Pensate ad esempio a tutti quei Paesi che non hanno aderito al protocollo di Kyoto e che quindi non hanno una tassa come quella che gli impianti siderurgici europei hanno sulla Co2 e dunque non contengono le loro emissioni in atmosfera. Non dovendo sostenere quella tassa che i produttori europei pagano fanno una competizione sleale.
Il tema del libero mercato e della conservazione di traffici globali, che sono la garanzia dello sviluppo e del benessere, passa attraverso una difesa di un commercio leale, che rispetta le regole del Wto.”
L’impatto sui trasporti marittimi
“Dunque la competizione sleale che si è avuta nella produzione dell’acciaio da Paesi soprattutto asiatici, ma non solamente, ha indotto reazioni. Reazioni che hanno costituito l’avvento di una base del commercio internazionale più protezionistica e quindi un inevitabile ripiegamento in traffici più regionali. Si vede negli Stati Uniti: entrare ed esportare negli Usa è quasi impossibile, hanno un’area di libero commercio Nafta (North America Free Trade Agreement, ndr) con Messico e Canada che vivono sotto l’influenza degli Usa. I cinesi diventano grandi importatori in momenti di boom dell’economia e sono più protezionistici nei momenti in cui invece la loro economia viaggia meno.
La tendenza è in atto e si vede nei volumi internazionali del trading di acciaio che si sono fortemente ridotti. Naturalmente questo ha conseguenze sullo shipping perché l’acciaio a livello internazionale viene trasportato fondamentalmente attraverso navi cargo e da questo punto di vista ci sono state quindi ripercussioni sullo shipping.”
Reshoring della produzione di acciaio
“Con reshoring si intende produzioni che erano state decentrate a livello internazionale e ora vengono riportate in patria. Questo non succede nel mondo dell’acciaio. Il reshoring riguarda le filiere a valle nella produzione dell’acciaio: la meccanica e altri settori per i quali la vicenda del Covid è stata di profonda riflessione sulle filiere di fornitura.
Queste filiere di fornitura erano filiere lunghe, che ad esempio nella meccanica in molti casi avevano coinvolto produttori e subfornitori cinesi e naturalmente con il chiudersi delle frontiere dovuta alla pandemia si è innescato un processo di ripensamento delle filiere produttive in cui il tema della sicurezza degli approvvigionamenti è andato a bilanciare la competitività degli approvvigionamenti. Perché se essere competitivo nell’acquisto dai miei fornitori significa avere catene molto lunghe che entrano in crisi per effetto della chiusura delle frontiere a causa della pandemia una riflessione si apre.
Era una riflessione che anche qui, per la verità, si era già aperta prima del Covid. In molte produzioni dell’abbigliamento, in cui l’industria italiana è particolarmente importante, il tema della qualità del manufatto aveva cominciato in certi casi a fare premio sul costo della lavorazione e quindi per garantire controllo e qualità dei prodotti alcune produzioni erano state riportate a casa.”
Attesa per le elezioni americane
“È chiaro che questo tema della globalizzazione vs. regionalizzazione, che costituirà un po’ la grande questione dell’economia internazionale dei prossimi anni, dipende da tante cose. Ad esempio da come andranno le elezioni americane. Se ci sarà una conferma di Trump è chiaro che queste tendenze protezionistiche degli Stati Uniti proseguiranno, se invece dovesse vincere Biden io credo che ci sarà un allentamento delle misure protezionistiche americane. Anche se bisogna riconoscere che, ad esempio sull’acciaio, lo stesso Obama aveva reso misure di difesa della produzione americana. Non è stato Trump il primo.
La stessa vicenda della Brexit è stata un segnale di rallentamento della globalizzazione. Uno dei grandi protagonisti della globalizzazione mondiale come il Regno Unito con la Brexit si richiude in sé stesso. Cosa succederà non è chiaro ma la decisione politica è andata in quella direzione lì.”
Stato di salute dei produttori italiani dell’acciaio
“Gli operatori italiani dell’acciaio riescono a esportare nonostante le barriere doganali. Nel senso che sono talmente efficienti dal punto di vista dei costi che, ad esempio, i produttori di tondo da cemento armato hanno una capacità installata per 6-7 milioni di tonnellate e un mercato interno che non supera 1,5/1,7 milioni. Sono quindi condannati a esportare ma sono talmente efficienti che esportano milioni di tonnellate extra Ue. Per molti anni il Nord Africa, in particolare l’Algeria, è stato un mercato di esportazione fortissima. Ora l’Algeria si è un po’ chiusa perché è arrivato un turco che ha costruito una grande siderurgia di prodotti lunghi in Turchia. Si pensava che ci sarebbe stata una crisi gravissimi dei cosiddetti tondinali bresciani e invece da due anni vengono esportati in Canada, in Messico, in Asia, in Estremo Oriente.
L’Acciaio pesa e quindi trasportarlo in giro per il mondo è costoso, ma nonostante oneri di trasporto molto elevati l’efficienza interna consente ai produttori italiani di esportare ad esempio in Indonesia. Un risultato basato sulla leadership di costo dei nostri produttori.”
Un giudizio e qualche previsione sullo stabilimento ex-Ilva di Taranto
“Ho fatto una battaglia campale per salvare l’Ilva dalla demagogia e dall’incompetenza di chi prima l’ha commissariata, poi di fatto l’ha chiusa e poi l’ha regalata a un produttore straniero. Questa è una vicenda che quando potremo scriverla… spero di poter essere vivo per utilizzare le mie memorie e per dire cosa è successo. È una vicenda che grida vendetta.
Quando l’Ilva è stata espropriata ai Riva aveva un patrimonio netto di oltre 4 miliardi, la gestione commissariale pubblica di commercialisti che non sapevano neanche che cosa fosse un impianto di produzione siderurgica (con tutto il rispetto per Laghi, Bondi prima, ecc.) ha disintegrato i 4 miliardi di patrimonio netto che i Riva avevano lasciato e ha generato un altro miliardo e mezzo di perdite. Quindi quando l’Ilva è stata consegnata in affitto a Mittal, rispetto ai valori che c’erano nel 2012, si è disintegrata una quantità di valore pazzesco. Senza aver fatto praticamente quasi niente. L’unica cosa molto importante che è stata fatta sono i carbonili coperti da un hangar che è costato più di 350 milioni di euro presi dai soldi dei Riva trovati all’estero.
L’impianto non viene manutenuto seriamente da 7 anni. I Riva spendevano ogni anno di capex su Taranto 350 milioni. In questi 7-8 anni si sono spesi meno di 100 milioni all’anno in manutenzione degli impianti. Quindi c’è un gap di oltre 200 milioni all’anno per 8 anni, dunque un miliardo e mezzo almeno.
Un impianto siderurgico sofisticato come quello di Taranto senza manutenzioni ordinarie e ben fatte non riesce più a produrre ed è quello che infatti sta succedendo. Producevano 9 milioni di tonnellate di acciaio, ora non riescono a fare neanche la metà. Quello che producono è di pessima qualità. Non rispettano le consegne, le promise qualitative. Un vero disastro.
Mittal è venuto a prendere il più bell’impianto siderurgico europeo e probabilmente uno dei più belli del mondo. E l’ha fatto, ho l’impressione, non tanto perché fosse interessato a ripristinare l’eccellenza di Taranto, ma per evitare che un cinese, un coreano o un altro concorrente si installasse nel cuore del Mediterraneo. Quindi non sono molto ottimista sul futuro di Taranto.
Mi fermo qua. Perché se potessi parlare in seduta più ristretta direi altre cose.”
Perchè non si è fatta avanti Duferco in quell’operazione
“Perché non avevamo i soldi per fare un’operazione di quel genere. Io ho sempre detto che la magnitudo finanziaria per fare l’operazione Taranto si aggirava fra i 4 e i 5 miliardi di euro.
C’è poi un problema manageriale gigantesco. Gli ultimi manager di qualità, importanti, delle partecipazioni statali io me li sono portato con me in Belgio 20 anni fa. Una squadra di persone formate dall’Italsider che quando sono vendute da me erano già in pensione. Dietro di loro purtroppo non c’è molto. Per gestire Taranto ci vogliono 50-60 manager di primo livello nei vari reparti, nelle varie divisioni, sui vari impianti.
Oggi la Morselli è lì con pochi manager e un po’ di ingegneri tarantini ma ci vuole ben altro per risollevare Taranto.”
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