Ecco perché le Adsp rischiano sulla tassazione. Ma la riforma resta seminale
Il tempo stringe, ma, forse, è ancora sufficiente per evitare che i cascami di una sconfitta nel contenzioso con la Commissione Europea inerente all’esenzione per le Autorità di Sistema Portuale dal pagamento delle imposte, ritenuta come vedremo più probabile di quanto non fosse mesi fa, portino nell’emergenza a riforme abborracciate (o, peggio, interessate) della portualità […]
Il tempo stringe, ma, forse, è ancora sufficiente per evitare che i cascami di una sconfitta nel contenzioso con la Commissione Europea inerente all’esenzione per le Autorità di Sistema Portuale dal pagamento delle imposte, ritenuta come vedremo più probabile di quanto non fosse mesi fa, portino nell’emergenza a riforme abborracciate (o, peggio, interessate) della portualità nazionale.
Mentre una recente sentenza del Consiglio di Stato rivelava come il Governo non solo non abbia mai contestato formalmente l’iniziativa della Commissione ma addirittura (insieme ad un paio di Adsp) propugni nei tribunali amministrativi italiani la stessa tesi sostenuta da Bruxelles (tasse portuali e canoni sono il corrispettivo di prestazioni di servizi), le Adsp, mossesi autonomamente dall’inizio, hanno replicato al suo controricorso con una memoria datata 31 agosto (che trovate qui).
Il documento è naturalmente una trattazione in punta di diritto, per sua natura impossibile da comprimere negli spazi della sintesi giornalistica, che non può che limitarsi a riportare i punti focali della posizione delle Adsp, richiamati fra le premesse: “(i) I canoni e le tasse portuali sono determinati dalla legge, e non dalle Adsp, (ii) la loro misura non dipende dalle caratteristiche del demanio portuale, dal tipo di porto, dalle capacità economiche del concessionario né dalla redditività dell’attività svolta da quest’ultimo, ciò che pare escludere in radice la possibilità di parlare di “sfruttamento commerciale”, poiché il canone e le tasse sono sempre le stesse in tutta Italia; (iii) solo lo Stato può essere titolare delle aree portuali, quindi non vi è alcun “mercato” nel quale le Adsp operano, né può esservi alcuna attività di impresa nel mettere a disposizione una risorsa che è solo pubblica per legge; (iv) neppure le tasse portuali costituiscono il corrispettivo di un servizio, poiché sono determinate dalla legge in modo identico in ciascun porto, a prescindere dalle sue caratteristiche e dagli investimenti pubblici che vengono fatti per rendere accessibile il porto alla generalità delle navi; (iv) non vi sono servizi di interesse generale di alcun tipo resi dalle Adsp agli utenti, a differenza di tutti gli altri casi decisi in relazione alle esenzioni dalle tasse portuali degli enti gestori dei porti in altri Stati membri, secondo una prassi che non è pertanto trasponibile al caso in discussione”.
Ricorso delle Adsp, controricorso della Commissione e replica degli enti italiani, insomma, non avrebbero che consolidato le rispettive posizioni e gli equilibri processuali non sarebbero quindi particolarmente variati.
Secondo, però, quanto consta a SHIPPING ITALY – ed è forse il motivo del peggiorativo (per le AdSP) mutamento generale di vedute – nell’ultimo passaggio prima che la palla passi al Tribunale dell’Ue, vale a dire nell’ultima memoria attesa entro il 5 novembre, la Commissione sarebbe pronta a giocarsi l’asso della manica delle diverse contraddizioni fra le asserzioni di controparte e alcune normative dell’ordinamento italiano, fotografate dallo stato dei fatti.
Ad esempio, non solo l’affermazione che “gli importi dei canoni demaniali e delle tasse per le operazioni di sbarco e imbarco sono predeterminati dal legislatore nazionale e non possono essere modificati dalle ricorrenti” cozza con la difficoltà di trovare due porti (o anche due terminal nello stesso porto quanto ai canoni) in cui ciò si verifichi, ma è proprio l’articolo 18 della legge portuale a parlare solo di “canoni minimi” e di determinazione di “canoni, anche commisurati all’entità dei traffici portuali”. Così come l’articolo 5 sancisce la prerogativa per le Adsp di “imporre soprattasse a carico delle merci imbarcate o sbarcate, oppure aumentare l’entità dei canoni di concessione”, “a copertura dei costi sostenuti per le opere da esse stesse realizzate”. Senza dimenticare l’art. 7, comma 1, del decreto legge 5 ottobre 1993, n. 400 (“Gli enti portuali potranno adottare, per concessioni demaniali marittime rientranti nel proprio ambito territoriale, criteri diversi da quelli indicati nel presente decreto”), richiamato da moltissimi regolamenti d’uso delle aree demaniali delle singole Adsp proprio per evidenziare quella “autonomia impositiva degli enti portuali” (così il regolamento di Adsp Napoli) che gli stessi enti ora vorrebbero negare. Per non dire dell’applicazione, in molte procedure ad evidenza pubblica, del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, cioè il rialzo, la valorizzazione rispetto a un canone predeterminato, anche qualora predeterminazione fosse della legge e non dell’Adsp.
E a valle di tutto questo è scontato che la Commissione, producendo l’evidenza delle differenze di canoni e tasse fra porto e porto e anche all’interno dello stesso porto, avrà gioco a sostenerne la dipendenza proprio dalle caratteristiche del demanio portuale, dal tipo di porto, dalle capacità economiche del concessionario, dalla redditività dell’attività da questo svolte.
Anche l’esclusiva titolarità in capo allo Stato delle aree portuali è smentita dalla realtà. Basta scaricare da internet le “planimetria delle aree demaniali e delle aree funzionali e destinazioni d’uso” allegate ai piani regolatori portuali dell’Adsp di Ravenna o di quella di Livorno per rendersi conto che tali enti esercitano le proprie prerogative anche su aree portuali di proprietà privata.
Anche sulla supposta indipendenza delle tasse portuali dagli investimenti pubblici fatti “per rendere accessibile il porto”, oltre al citato articolo 5 della legge portuale, le contraddizioni sono all’ordine del giorno. Basti pensare agli incrementi annunciati dall’Adsp di Genova per finanziare la costruzione della nuova diga foranea o a quelli appena decisi dall’Adsp di Civitavecchia per sostenere un bilancio (comprensivo delle spese per infrastrutture) che altrimenti non starebbe in piedi.
Quanto alla resa di servizi di interesse generale, anche preso atto dell’abrogazione del cosiddetto decreto Giurgola, che fra essi individuava fra gli altri la gestione delle stazioni marittime dei passeggeri, non a caso in molti porti partecipate o controllate a lungo dalle rispettive Adsp, la Commissione non potrà non rilevare come in molti casi lo siano ancora (ad esempio a Livorno o a Trieste dove l’Adsp ha formalmente qualificato il servizio prestato dalla sua partecipata come di “interesse generale”), come, del resto, nel caso delle società che svolgono servizi di security, in alcuni porti controllate dall’ente (Civitavecchia, Gioia Tauro, etc), in altri messi a gara. Per poi passare alla disamina del corposo elenco di partecipazioni, spesso di controllo, in società che esercitano attività commerciali, dagli interporti (Trieste, Livorno, Vado Ligure, etc) alla gestione dei bacini di carenaggio (Genova), perfino la gestione di un aeroporto (ancora Genova).
Insomma, il contenzioso pare minato per le Adsp. Che, se non altro, sembrerebbero essersene rese conto: le voci di un dialogo avviato, per quanto embrionale, per affrontare la possibile débâcle giudiziaria con un intervento normativo tale da soddisfare le pretese comunitarie senza scardinare il sistema, a partire dalla sua pubblicità, trovano più di un riscontro. Eppure nell’ordine del giorno della conferenza dei presidenti convocata lunedì al Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili il tema non c’è ed è solo un auspicio di qualcuno che se ne parli all’assemblea di Assoporti del giorno successivo.
Quanto basta, tuttavia, per tener viva la speranza di farsi trovare pronti, attraverso debiti passaggi parlamentari, qualora la prossima primavera il Tribunale dia torto alle Adsp.
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