Autoproduzione, avvalimento fra terminal e fondo esodi: le battaglie aperte del lavoro portuale
Secondo i numeri di Isfort e Assiterminal gli addetti sulle banchine italiane sono scesi in 40 anni da 21.824 a 15.087. Di questi oltre mille hanno più di 60 anni
Roma – Gli addetti impiegati oggi sulle banchine degli scali marittimi d’Italia sono oggi fra 15 e 16 mila, in calo di un terzo rispetto agli anni ’80 del secolo scorso.
Il convegno intitolato ‘I porti tra nuove identità e vecchi orizzonti’, andato in scena nella capitale in ricordo di Francesco Nerli, è stato anche l’occasione per fare il punto sul lavoro portuale in Italia, ancora oggi alle prese con temi delicati quali l’autoproduzione e l’avvalimento di lavoratori fra terminal dello stesso gruppo.
La fotografia in numeri del comparto è stata scattata da Andrea Appetecchia (Isfort) e Alessandro Ferrari (Assiterminal). Il primo ha evidenziato come, a fronte di un aumento dei traffici pari a 80 milioni di tonnellate (+21%) fra il 1980 e il 2020, si è registrato un calo degli addetti nel lavoro portuale del -28% (da quasi 22 mila ai poco meno di 16 mila odierni).
I dati aggiornati al 20212 dicono che il porto di Genova faceva (fa) la parte del leone con 2.217 addetti impiegati da imprese portuali ex art.16 e 18 a cui si aggiungono 990 lavoratori della Culmv (art.17), a Gioia Tauro i camalli degli articoli 16 e 18 erano 1.359 mentre a Napoli 741, ma nello scalo campano figuravano anche 96 addetti della Culp ex art.17. Significativi i numeri anche a Ravenna dove 622 erano gli addetti degli articoli 16 e 18 più altri 439 dell’articolo 17. Interessante il grafico che mostra l’evoluzione della ripartizione degli addetti fra i ‘datori di lavoro’: nel 1983 la quasi totalità dei 21.824 lavoratori faceva capo a pool portuali (compagnie ex art.17), nel 2009 oltre il 75% dei 20mila addetti lavorava invece per imprese portuali ex art.16 e 18, nel 2017 quasi il 50% dei portuali risultava alle dipendenze di terminalisti ex art.18 e nel 2020 quasi la metà dei 15.087 addetti in banchina era impiegato da imprese ex art.16, almeno un 30% da terminalisti art.18 e una quota minoritaria dai prestatori di manodopera ex art.17.
Sempre da Isfort è stata scattata anche una fotografia della crescita di produttività del lavoro nel porto di Ravenna dal 1980 al 2018 spiegata dai seguenti numeri: in poco meno di 40 anni il numero di soci lavoratori della Compagnia lavoratori portuali di Ravenna è scesa da 1.200 a 400 lavoratori, il rapporto soci/mezzi è calato da 9 a 1, mentre il rapporto fra soci e traffico è sceso da 7 a 60. I mezzi per la movimentazione della merce in porto sono quadruplicati: erano 140 nel 1980 mentre erano saliti a 400 nel 2018, così come le tonnellate di merce movimentate sono salite da 8mila a 24mila circa.
Sempre secondo spiegato da Appetecchia (Isfort) la produttività delle operazioni portuali nei porti di Anversa e Genova è quasi allo stesso livello e “non è il costo del lavoro che fa la differenza” è stato detto. I container movimentati per ora sono nel range 20-25 nello scalo ligure e fra 30 e 35 in Belgio, mentre l’incidenza del lavoro sul costo della movimentazione è perfino inferiore (75%) a Genova rispetto ad Anversa (85%).
Nel ciclo nave (dove è richiesta maggiore flessibilità e il valore aggiunto è inferiore) la diffusione di appalti di servizi a imprese ex art.16 è maggiore mentre nel ciclo terminal (dove minore è la flessibilità richiesta e maggiore il valore aggiunto) il ricorso agli appalti esterni è modesto. “Non vorrei che dal Far West si passasse alla riserva indiana per gli articoli 17 nei porti” ha commentato Appetecchia, introducendo poi il tema della “autoproduzione lato mare” e “degli appalti dati con facilità lato terra” che hanno portato “al risultato delle cooperative nella logistica” a terra. Cooperative che Alessandro Ramazza (presidente di Intempo) ha definito “spurie ed etniche, spesso guidate da caporali”; organizzazioni del lavoro “che non ci sono nei porti e questo va conservato”.
La rappresentazione della ‘popolazione portuale’ presentata invece dal segretario generale di Assiterminal, Alessandro Ferrari, ha mostrato come in Italia 1.013, su un totale di 15.140 lavoratori, abbia un’età superiore a 60 anni e 2.276 abbiano fra 55 e 60 anni. Oltre dunque a richiamare l’urgenza di costituire e rendere operativo il previsto Fondo per l’accompagnamento all’esodo dei lavoratori portuali, Ferrari ha posto l’accento anche sulla necessità di uniformare i comportamenti delle port authority in materia di formazione e ‘reskilling’, magari creando anche un unico fondo per questa attività. Così come si potrebbe e dovrebbe ragionare anche sull’opportunità di uniformare i criteri di elaborazione del Piano Organico di ciascun sistema portuale e i criteri di accesso al lavoro portuale fra i vari scali marittimi d’Italia.
Antonio Benvenuti, console della Culmv di Genova, invitando a non considerare chiusa la partita dell’autoproduzione (“non è risolta, non è una decisione acquisita”), ha confermato ancora una volta l’opposizione al tentativo di avvalimento di lavoratori fra terminal dello stesso gruppo in un porto. “Il trasferimento di lavoratori fra terminal (Psa Sech e Psa Genova Pra’) è fra gli elementi che porterebbero a un conflitto sociale” ha sottolineato Benvenuti, perché “la Culmv rischierebbe di perdere il 35% del proprio lavoro”. Precisando che “il 70% del monte ore di lavoro al terminal Psa di Pra’ lo facciamo noi della Culmv”.
Maurizio Diamante (Fit Cisl) sull’autoproduzione ha detto: “Con l’articolo199 bis pensavamo fosse stato messo un punto sulle condizioni per stabilire dove e come poterla fare nei porti. Da quel punto non arretreremo”. Dello stesso avviso Natale Colombo, segretario nazionale Filt Cgil, per cui “la spinta che viene dal mare (dagli armatori, ndr) sembra voler andare verso un ‘liberi tutti’ al quale ci opporremo. Si avrebbe un dumping fra lavoro a mare e a terra se le navi facessero autoproduzione in mare con i marittimi”.
In conclusione Luca Grilli, presidente di Ancip (Associazione nazionale imprese portuali) e della Compagnia Portuale Srl di Ravenna, si è espresso dicendo: “La tecnologia non licenzia. Semmai licenziano le aziende che non investono in tecnologia e rimangono indietro essendo meno competitive. Non bisogna affrontarla con paura. Noi dobbiamo seguire la tecnologia attraverso la formazione; anche grazie al 15bis che ha dato la possibilità agli enti di aiutare sacche di lavoratori evitando il rischio che rimangano indietro”. Nel caso specifico di Ravenna, “dove c’è un prestatore di manodopera ex art.17 che aveva numeri minimi di Indennità di mancato avviamento”, Grilli ha ricordato che “i terminalisti hanno sostenuto un nuovo modello per spendere qualcosa in più in caso di Ima ma assicurarsi al contempo un servizio migliore, con più personale a disposizione, quando la nave è in banchina. La politica oggi dovrebbe andare nei porti dove c’è pace sociale e chiedere: come fate a mantenerla?”.
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