Sulla questione ‘portuali – ferrovieri’ interviene anche Ferrari (Assiterminal)
La novità nello scalo giuliano è l’occasione di un dibattito sulle possibili contaminazioni, anche contrattuali, fra lavoro in banchina e lavoro nella catena logistica
Mentre la legge sui porti compie 30 anni, a Trieste l’Alpt avvierà lavoratori anche alle manovre ferroviarie. Una novità che potrebbe preludere a grandi cambiamenti degli assetti esistenti nel lavoro portuale. Ne abbiamo parlato con Alessandro Ferrari, direttore generale di Assiterminal.
Anche in base alle sue precedenti esperienze nella gestione del personale (prima di approdare all’associazione terminalistica Ferrari è stato 14 anni ai vertici delle risorse umane di Gnv), si possono immaginare nuovi sviluppi e con quali prospettive?
“A 30 anni dalla “legge di riordino della legislazione in materia portuale” (l. 84/94) e alla vigilia, per ora solo annunciata, di una seconda riforma della portualità si potrebbero accennare alcune considerazioni e conseguenti ipotetici scenari, giusto per animare un dibattito.
Alcuni istituti della legge 84/94 nascono dall’esigenza di “riordino” di un contesto che cambiava radicalmente. Infatti per alcune fattispecie si erano previsti regimi “temporanei” come ad esempio la disciplina dell’art.21 sulla trasformazione in società delle compagnie e gruppi portuali o l’art.19 sulle autonomie funzionali o ancora l’individuazione della gestione delle stazioni marittime e servizi di supporto ai passeggeri come servizi di interesse generale, essendo venuto meno il dm 14/11/1994 ai sensi del’art.6, comma 4, lett.c: detti soggetti potrebbero essere assimilati ai concessionari ex art.18, l 84/94 anche in funzione dei business model evoluti rispetto al secolo scorso e tenuto conto dello sviluppo dei traffici dei comparti crociere e traghetti. Temporaneità, appunto, funzionale a regimare un sistema che si sarebbe armonizzato nel tempo”.
Crede che esista (e quale) oggi un modello di lavoro portuale, una cornice valevole a livello nazionale?
“I modelli sull’organizzazione del lavoro, ben perimetrati dalla “circolare Provinciali” del 2003, ripresa nella Circolare 1/2012 dell’Autorità Portuale di Livorno, sempre a firma Provinciali, non sempre hanno seguito nei diversi porti o sistemi portuali sviluppi organici, discostandosi a volte dall’impostazione iniziale, modellandosi su esigenze o rapporti di forza locali.”
E la distinzione fra operazioni e servizi portuali regge ancora?
“Già la distinzione tra operazioni (dm 585/1995) e servizi portuali (dm 132/2002) negli anni e nei diversi porti ha trovato differenti declinazioni (a volte profondamente diverse tra loro) che potrebbero essere armonizzate anche attraverso il superamento del distinguo, come avviene in buona parte della portualità europea dove la centralità è focalizzata sul cosiddetto ciclo delle operazioni portuali e pertanto traguardando più all’efficienza dell’attività nel suo insieme. I servizi portuali sono definiti come “prestazioni specialistiche servizi complementari e accessori al ciclo delle operazioni portuali” e pertanto si potrebbe ipotizzare un’integrazione progressiva di operazioni e servizi in un unicum anche dal punto di vista autorizzativo: ciò non toglie ovviamente la possibilità di integrare o surrogare i modelli organizzativi a seconda delle circostanze, attraverso appalti di porzioni di ciclo ovvero l’utilizzo di lavoro temporaneo portuale.”
Questa sorta di maggiore flessibilità a cosa servirebbe?
“Una maggiore flessibilità in tal senso, a seconda delle merceologie operate in un porto o sistema portuale, potrebbe favorire l’efficientamento organizzativo delle imprese, una maggiore polivalenza e quindi professionalizzazione dei lavoratori, piuttosto che mantenere segmentazioni troppo spesso funzionali al mantenimento di equilibri localistici. Lo sviluppo del lavoro portuale passa anche attraverso lo sviluppo dei modelli organizzativi e operativi delle aziende che, in molti casi, rispetto agli anni ’80 hanno ampliato le proprie attività ad altri ambiti della logistica: credo che i fenomeni di integrazione vadano letti sia in orizzontale che in verticale e lo sviluppo dei profili professionali deve traguardare anche questi cambiamenti per offrire maggiori possibilità di crescita professionale e diversificazione a chi lavora in un ambito, quello portuale, sempre più aperto: mantenendo, ovviamente chiari i presupposti formativi specifici per ogni ambito e mansione di sicurezza sul lavoro.
Anche dal punto di vista comunicativo, per attrarre i giovani, presentare un mondo del lavoro aperto e con potenzialità di fare esperienze in più ambiti crescendo in un contesto che si sta sviluppando sempre più trasversalmente non renderebbe più ‘sexy’ le nostre aziende? Parliamo tanto degli Its in cui credo tantissimo: dobbiamo creare uno story telling coerente anche con il mercato della formazione professionalizzante.”
Come si collegano queste considerazioni al modello Trieste?
“Il modello della somministrazione di lavoro portuale temporaneo portuale ha un’ulteriore genesi e peculiarità a prescindere dalle declinazioni adottate (comma 2 o comma 5 dell’art.17, l.84/94): il modello operativo nasce con l’esclusività della prestazione per l’esecuzione delle operazioni e dei servizi portuali che vengono individuati dalla Adsp. Questo presupposto non si discute. Quello che potrebbe essere oggetto di discussione, in un mercato di servizi “liberalizzato”, come prima accennato, è valutare la possibilità di impiego del lavoro portuale temporaneo, a condizioni di mercato e senza esclusività, anche in quelli che, per intenderci, venivano individuati come servizi di interesse generale ovvero attività non coincidenti né strettamente connesse alle operazioni portuali che si possono svolgere sempre all’interno del demanio portuale regolato e gestito dall’Adsp.”
Stiamo quindi parlando di uscire dal modello “camallo”?
“Uno sviluppo in tal senso sarebbe coerente con il concetto espresso in precedenza: ferme restando alcune specificità del lavoro portuale, credo non sia più il tempo di ragionare per comparti produttivi a se stanti, soprattutto nel mondo della logistica e dei trasporti. Più si sviluppano modelli di lavoro integrabili più la dignità stessa del lavoro “portuale” potrà aprirsi al suo contesto, quello di una logistica in cui la professionalità è ricercata, in cui la domanda è molto ampia e variegata, in cui alcuni “modelli”, come per esempio il Contratto di Lavoro dei porti, possono essere esportati, con i dovuti accorgimenti magari, o quantomeno messi a fattore comune di altri comparti a noi limitrofi, anzi con noi interconnessi.”
Sulla base di queste considerazioni anche i modelli organizzativi dei terminal stanno cambiando: anche su questo sarebbe opportuno aprire un dibattito?
“Il ragionamento che faccio parte anche dagli assetti operativi dei terminal, attuali e in prospettiva: il mondo si evolve, in alcuni casi. Partiamo da una considerazione: l’automazione anche nei terminal container italiani è in fase di sviluppo. Non siamo ai livelli del far east o di alcuni porti nord europei che per dimensioni e capacità di investimento sono ormai totalmente automatizzati ma il processo è ormai avviato. Questo ovviamente comporta un progressivo cambiamento nelle logiche operative e un diverso impiego delle “persone” nella operatività: ciò vuole anche dire che i concetti tradizionali di operazioni e servizi portuali, nel ciclo contenitori cambiano. L’automazione delle operazioni di carico e scarico delle navi e della movimentazione delle merci in banchina riduce l’impatto del work intensive verso la remotizzazione delle attività, lasciando ancora a regime le attività tipiche di rizzaggio e derizzaggio dei container. Le dinamiche operative per i terminal petroliferi o delle cd rinfuse liquide sono già tendenzialmente ‘automatizzate’. Discorso analogo, per quanto più indietro sulle cosiddette merci varie, mentre permangono e permarranno gli attuali modelli operativi per i traghetti (ro/ro e car carrier o multipurpose) che necessitano ancora di forza lavoro per imbarcare e sbarcare la merce e per il rizzaggio e derizzaggio. Diverso è il tema dei terminal crociere, in cui il ciclo di attività di assistenza ai passeggeri già oggi è un ciclo operativo che non necessita di attività specialistiche: laddove vengono utilizzate le compagnie portuali per l’imbarco e sbarco dei bagagli dei crocieristi, ciò avviene per “usi” locali, ma non certo per esigenze specifiche del servizio
Un’ultima considerazione: tutte le aziende che operano nei porti interfacciandosi commercialmente con le navi sono terminalisti, e dovrebbero essere trattati come tali ai sensi del regime concessorio: laddove c’è operatività di una nave i principi del rapporto concessorio devono essere uniformati, tantopiù alla luce della recente, scontata, sentenza della Corte di Giustizia europea. Eserciti un’attività terminalistica, pagherai un canone di concessione commisurato agli investimenti e all’efficienza del tuo modello operativo e di business e su questo l’Adsp non dovrà fare margini ma bensì stare in equilibrio sui costi afferenti la gestione del demanio … ma questo è ancora un altro tema, meglio lasciarlo ad una prossima discussione.”
A.M.
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER QUOTIDIANA GRATUITA DI SHIPPING ITALY
I ‘portuali ferrovieri’ di Trieste fanno discutere: “Operazione giuridicamente borderline”