“I privati a caccia del patrimonio pubblico dei porti”
I bilanci mostrano come lo Stato abbia investito fortemente sull’infrastrutturazione delle banchine patrimonializzando le Autorità portuali, a fronte di traffici che ristagnano da 20 anni
Contributo a cura di Riccardo Degl’Innocenti *
* Esperto in materia di lavoro portuale
Si parla di inefficienza e mancanza di autonomia finanziaria dei porti per motivare le richieste della loro privatizzazione. Per legge, i porti sono già dotati di ordinamento speciale e di autonomia, mentre le attività portuali sono già riservate ai privati. Di nuovo c’è che si tenta di privatizzare anche la proprietà dei porti, per sottrarla progressivamente al patrimonio demaniale. Non è che i privati oggi non facciano profitti nei porti, ma non è mai abbastanza.
Perché questa ulteriore privatizzazione? Fino a ieri si diceva per gli scarsi investimenti a causa dell’insufficiente autonomia finanziaria delle autorità portuali e della burocrazia statale. Oggi la si motiva in modo diverso. Si ammette che occorre per un verso evitare nuove strutture inutili, per non buttare via soldi pubblici nell’attuale situazione debitoria dello stato (il 50% della capacità dei terminal container è inutilizzata, ma ci sono cantieri aperti ovunque e miliardi già investiti per raddoppiarla); per l’altro verso, che occorre governare gli investimenti pubblici nei porti con una strategia nazionale che più che al “mare”, vista anche la stagnazione ormai ventennale dei traffici, guardi ai collegamenti in “terra”, all’intermodalità, al ruolo dei porti come anelli della catena logistica piuttosto che come business commerciali, alle transizioni ecologica e digitale che necessitano un forte coordinamento nei e tra i porti. Si pensa perciò di dare una struttura giuridica societaria a questa nuova governance e di farvi entrare i capitali privati. Chissà perché, visto che non se ne vede affatto una chiara necessità?
Come funzionano oggi i porti rispetto all’autonomia finanziaria e al rapporto con il governo centrale?
In un articolo su Rivista di Economia e Politica dei Trasporti del 2013 dal titolo “Quanto, dove costano i porti ai contribuenti”, Vittorio Torbianelli, attuale Commissario straordinario dell’Autorità di sistema portuale di Trieste e Monfalcone, analizzò i consuntivi delle autorità portuali fra 2003 e 2010, prendendo in esame il rapporto fra le entrate proprie, provenienti da utenti e operatori, e i contributi da parte di stato, enti locali e altri organismi pubblici.
Nel bilancio delle Autorità portuali le entrate proprie sono quelle che derivano dalla gestione e sono pertanto correlate con i volumi di traffico e l’utilizzo dei beni demaniali. Includono i canoni concessori, le tasse portuali, i proventi patrimoniali e per autorizzazione e per vendita di beni e servizi. Rappresentano il “valore della produzione” dell’amministrazione portuale.
A queste entrate si aggiungono in bilancio i contributi pubblici destinati in conto capitale agli investimenti, i quali, nella programmazione finanziaria, sono integrati dalle entrate proprie che avanzano dalle spese correnti di funzionamento e di mantenimento.
Nell’articolo di Torbianelli compare una tabella che mostra, nel periodo osservato, nei 24 porti del sistema nazionale, che le entrate proprie sono state pari al 56% dei contributi pubblici, con un equivalente sbilancio gravante sull’erario di 1,6 Mld euro in valore assoluto. I tre porti liguri nel loro complesso mostravano tuttavia un equilibrio tra i due flussi di risorse, con un perfetto bilanciamento di Genova (100%), un disavanzo di Savona (69%), compensato da un avanzo di La Spezia (152%). Il valore ottenuto dalla somma delle due voci, approssimante le entrate totali, segnalava la dimensione finanziaria di ciascuna autorità, che nel caso dei porti liguri sommava il 17,2% dei porti nazionali, circa 1/6 del totale.
Abbiamo ripetuto l’analisi di Torbianelli per il periodo 2006-2020, allargando lo sguardo a altre voci del consuntivo delle Relazioni annuali delle autorità portuali disponibili sul sito del Ministero delle infrastrutture. In questi 15 anni, che in parte si sovrappongono all’analisi di Torbianelli, la situazione risulta ribaltata: le entrate proprie sono salite al 125% dei contributi pubblici, con un avanzo di 1,4 Mld euro a favore dell’erario. Nei porti liguri in particolare le entrate proprie sono al 200% dei contributi pubblici, con un avanzo di 800 Mlo euro, raggiungendo una dimensione finanziaria complessiva del 19,1% dei flussi nazionali, circa 1/5 del totale (va tenuto conto che dal 2017, nel bilancio di La Spezia compare anche il porto di Marina di Carrara).
In soldoni, in 15 anni i porti italiani hanno ricavato 7 Mld euro dalla loro attività e ricevuto come contributi pubblici 5,5 Mld euro, a cui vanno aggiunti 1,2 Mld di prestiti. A queste entrate che alla fine sono assommate a 15,1 Mld hanno fatto riscontro 13,8 Mld di uscite, con un saldo positivo di 1,3 Mld euro, di cui 350 Mlo nei porti liguri. Inoltre, mentre in conto capitale è stato iscritto il 47,3% del totale delle entrate, sul totale delle uscite gli investimenti salgono al 61,9%, a segnalare la destinazione a questo scopo di una quota importante di entrate proprie e quindi del grado di autonomia finanziaria dei porti anche sul lato degli investimenti.
A questi risultati fa diretto riscontro l’aumento del Patrimonio netto totale dei porti italiani che nel 2020 ha raggiunto i 3,2 Mld euro, di cui 810 Mlo dei porti liguri. Un bel “tesoretto” per gli appetiti dei privati.
Ai dati positivi però fanno riscontro negativo i traffici. Dal 2006 al 2020 le tonnellate di merce movimentata nei porti italiani sono rimaste le stesse nonostante la mole di investimenti accertati, pari a quasi 8 Mld, una media di circa mezzo miliardo l’anno distribuito in 24 porti di grandezze assai diverse. A questo risultato ha contribuito il declino dei traffici di rinfuse, ma la crescita delle merci containerizzate non è stata eclatante: nello stesso periodo, infatti, in Italia i “teu” sono aumentati in numero del 13%. Nei porti liguri la crescita è stata maggiore, 21,4%, ma sempre meno di 1,5% medio annuo e a fronte di un calo del 22,8% del tonnellaggio totale di merci. Eppure, sono stati accertati 1,8 Mld di investimenti sino al 2020 (per non parlare di quelli degli anni presenti, in cui peraltro i dati di traffico continuano a ristagnare). Se sotto il profilo finanziario le cose hanno funzionato, sotto quello economico emerge un bilancio negativo dal rapporto tra investimenti e resa produttiva.
Lo stato sinora ha fatto la sua parte. Le imprese private, che pure hanno continuato a fare profitti per i propri azionisti, possono dire di avere fatto lo stesso? Per quale merito e per quale scopo dovrebbero aspirare a entrare nel governo pubblico dei porti?
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