L’impatto delle tensioni fra Usa e Iran sui traffici marittimi e sui noli delle navi cisterna
Contributo a firma di Ennio Palmesino* *broker marittimo Sebbene l’uccisione del generale Soleymani rappresenti una drammatica escalation della tensione nel Golfo Persico, non possiamo dimenticare che il nervosismo era già presente e infatti i noli delle navi VLCC erano già saliti in modo consistente. Avevamo già visto alcuni attacchi a petroliere saudite e occidentali […]
Contributo a firma di Ennio Palmesino*
*broker marittimo
Sebbene l’uccisione del generale Soleymani rappresenti una drammatica escalation della tensione nel Golfo Persico, non possiamo dimenticare che il nervosismo era già presente e infatti i noli delle navi VLCC erano già saliti in modo consistente.
Avevamo già visto alcuni attacchi a petroliere saudite e occidentali in zona Mar Rosso, addirittura nel 2018, poi in primavera avevamo assistito all’attacco (con droni) lanciato (si disse) da ribelli yemeniti (alleati degli iraniani) all’oleodotto Petroline, che corre da est a ovest dell’Arabia Saudita, attacco che aveva già destato sorpresa, dato che la distanza del tubo dallo Yemen supera i 1.000 km.
Più avanti nel corso dell’ultimo anno abbiamo visto attacchi dei guardiani della rivoluzione iraniani alle tanker, soprattutto in zona Hormuz. E infine i più recenti e gravi attacchi all’impianto di raffinazione di Abqaiq, di proprietà della Saudi Aramco (il più grande al mondo) e al giacimento petrolifero Khurais.
Questi attacchi hanno dimostrato la vulnerabilità delle infrastrutture petrolifere saudite a questa tipologia di eventi, e hanno ridotto, sia pure temporaneamente, la produzione del Regno del 57% e impedito per qualche tempo il trasporto di greggio dalla parte orientale del paese al porto di Yanbu sul Mar Rosso.
Il fatto è che generalmente siamo osservatori poco attenti e tendiamo a dimenticare in fretta le brutte notizie. Ma l’Iran (guidato in questa attività proprio da Soleymani) aveva già lanciato numerose provocazioni ai vicini sauditi, alleati degli Usa. Quando i democrats americani hanno chiesto a Trump dov’era la “pistola fumante” iraniana che giustificasse l’uccisione del capo dei guardiani della rivoluzione, hanno dimostrato di avere la memoria molto corta.
Ma torniamo ai noli. Mi limito a considerare tre cifre: a fronte di un nolo medio sulla rotta Golfo Persico/East pari a 15.000 dollari/giorno in tutto l’anno 2018, l’anno 2019 appena chiuso ha registrato una media di 40.000, soprattutto grazie a un ultimo trimestre con i fuochi artificiali. In particolare, l’intero mese di dicembre ha registrato una media di 100.000 dollari/giorno.
Questo perché c’erano già forti preoccupazioni degli importatori di greggio e si era già verificata una corsa all’accaparramento dei carichi, nel timore di un peggioramento della situazione. Già a metà dicembre si vedevano i carichi per imbarco gennaio che venivano fissati molto rapidamente.
Ora non è facile prevedere cosa succederà. Se l’Iran proverà a chiudere lo stretto di Hormuz, o a ridurne il passaggio, alcuni altri paesi del Golfo possono attutire le conseguenze: l’Arabia Saudita può sfruttare al massimo il già citato oleodotto Petroline, che sbuca a Yanbu sul Mar Rosso (5 milioni di barili al giorno, ora in fase di espansione fino a 7 milioni di barili), così come il nuovo terminal di esportazione di Muajjiz, sempre sul Mar Rosso; Abu Dhabi può sfruttare il recente oleodotto da Habshan a Fujairah, sull’Oceano Indiano, che è fuori dallo Stretto.
Ma con Hormuz bloccato, i noli saliranno fatalmente, per compensare un’operazione che diventa molto rischiosa. A quel punto gli importatori cominceranno a guardarsi attorno e cercheranno greggio da altre aree più sicure. Dato che tre quarti del greggio del Persico va verso l’estremo oriente, sono soprattutto gli orientali a doversi preoccupare, e non tanto gli europei. Per gli orientali significa andare a cercare greggio in Atlantico (West Africa, Venezuela, USA) con l’allungamento del viaggio medio (il famoso rapporto tons x miles) il che significa un aumento dei noli anche a parità di volumi.
Se non ci saranno ripercussioni su Hormuz, la situazione dei noli potrebbe invece rimanere stabile, però nel frattempo si innesta su questo scenario un altro problema, che non ha niente a che fare con la geopolitica: l’obbligo di usare dal primo gennaio fuel oil con lo 0,5% di zolfo fa aumentare i costi dell’armatore. Il quale per questo solo fatto, nel passaggio dai noli di dicembre a quelli di gennaio, a parità di rata Worldscale, vede scendere i rendimenti delle sue navi da 100.000 dollari/giorno a 75.000, e farà quindi di tutto per far lievitare la rata di nolo a viaggio (attualmente intorno a Worldscale 120), per ritornare ai rendimenti precedenti. Userà quindi tutti i trucchi del mestiere (tipo ritardare l’arrivo delle navi in zona Persico per assottigliare l’offerta di stiva, o anche far sparire artificialmente le navi dalle liste, limitandosi a segnalare solo le più pronte, come fanno spesso i pool di gestione di navi di terzi).
Resta da dire che anche le altre navi tanker non se la passano male, anche in altre zone, per esempio le Suezmax hanno fatto in media più di 50.000 dollari/giorno nel mese di dicembre 2019, mentre le Aframax, ancorché più piccole, hanno fatto più di 60.000, e anche le product carrier non se le sono cavata male, stando sui 30.000 dollari/giorno.
Tutto questo a fronte invece di uno sprofondo dei noli delle dry bulkers, con le Capesizes scese intorno ai 13.000 dollari/giorno e le Panamax e le Supramax sotto ai 10.000. A dimostrazione che è il petrolio la commodity di gran lunga più strategica e più sensibile, e che nemmeno il parziale accordo commerciale Usa/Cina è riuscito a risollevare i noli del mercato dry bulk.
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER QUOTIDIANA GRATUITA DI SHIPPING ITALY