La riforma portuale Paita/Rotta esce quasi indenne dal vaglio della Consulta
Bocciata solo la cancellazione dell’interesse paesaggistico, confermati invece il ridimensionamento di regioni e comuni nella pianificazione portuale e la prevalenza dei Prp come strumenti pianificatori, con buona pace dell’attuale Ministero
La ‘riforma Paita’ della legge portuale, cioè l’emendamento-blitz a un decreto legge (a firma delle deputate relatrici Raffaella Paita e Alessia Rotta) con cui il Governo Draghi a fine 2021 abbatté il ruolo di comuni e regioni nella pianificazione portuale, è quasi per intero costituzionalmente valida.
Lo ha stabilito, chiamata in causa dalle Regioni Toscana e Friuli Venezia Giulia, una fluviale sentenza della Corte Costituzionale, redatta da Filippo Patroni Griffi (cugino dell’omonimo Ugo che presiede l’Autorità di Sistema Portuale del Mar Adriatico Meridionale e che da anni è in lite con il comune di Brindisi proprio in relazione ad alcuni dei temi disciplinati dall’intervento normativo in questione).
Su 24 questioni di legittimità costituzionale, infatti, solo 4 (e fra le meno significative) sono state ritenute fondate dalla Consulta, che ha promosso e salvaguardato l’impianto della norma con cui è stato riscritto l’articolo 5 della legge portuale 84/1994. E gli effetti paiono talmente ridotti che è lecito immaginare non ci sia neppure bisogno di un intervento correttivo da parte del legislatore, come invece richiedono spesso le pronunce della Corte.
La prima, infatti, riguarda l’abrogazione (disposta con la riforma Paita/Rotta) dell’obbligo per le Adsp di accompagnare la redazione dei documenti di programmazione strategica di sistema (Dpss) sia accompagnato da una relazione illustrativa che descriva i criteri seguiti nel prescelto assetto del sistema e gli indirizzi per la futura pianificazione.
La seconda, la più delicata, riguarda la modifica alla procedura approvativa dei Dpss, che ha sottratto alle Regioni (e assegnato al Ministero) la prerogativa dell’espressione dell’approvazione, lasciando loro solo quella della formulazione di un parere non vincolante. Ma la Corte non ha accolto la questione sostanziale, limitandosi a cassare la formulazione dettata dall’emendamento e a suggerirne una alternativa ma negli effetti analoga, che alle regioni lascia solo la prerogativa di esprimere un’intesa col Ministero sull’approvazione, non vincolante.
Cancellate, in terzo luogo, le due righe in base a cui col Dpss le Adsp potevano ricomprendere negli “ambiti portuali” aree assoggettate alla propria giurisdizione ancorché estranee alla loro circoscrizione territoriale (una previsione cassata perché “dai contorni oscuri”).
Incostituzionale infine – ed è l’intervento più significativo della Corte – l’intero comma 1-septies del nuovo articolo 5, che “nel sottrarre le zone ricomprese negli ambiti portuali al vincolo paesaggistico delle aree costiere e nell’imporre alle regioni il conseguente obbligo di modifica dei piani paesistici incide in via unilaterale sull’assetto della pianificazione paesaggistica, (…) risolvendosi un arretramento della protezione del bene paesaggistico”.
Come detto, tuttavia, anche quest’ultimo accoglimento non intacca il nocciolo della riforma.
Oltre a rigettare i rilievi sull’utilizzo, per una modifica di tale portata, di uno strumento come la conversione in legge di un decreto legge, per giunta di argomento solo lontanamente attinente alla norma originaria, la Corte ha dichiarato infondate 20 questioni di legittimità costituzionale. Fra esse, di particolare significato il fatto che la Corte abbia ribadito la “prevalenza” del piano regolatore portuale, quale “piano settoriale” su quelli generali: “Il Prp, infatti, deve dare speciale disciplina al territorio portuale in quanto preordinato alla tutela dello specifico interesse pubblico al corretto svolgimento e allo sviluppo del traffico marittimo nazionale e internazionale”.
Analogamente preservati gli altri cardini della riforma. Uno è il drastico ridimensionamento di comuni e regioni nella procedura di approvazione dei piani regolatori portuali. Le regioni, in particolare, hanno perso la competenza all’approvazione, rimpiazzata da un mero parere. Un assetto promosso dalla Corte, anche in ragione, si legge, della “prevalenza dell’interesse statale allo sviluppo dello snodo portuale di rilevanza nazionale e internazionale sugli interessi regionali o comunali”.
Un altro è l’abrogazione della verifica di non contrasto con gli strumenti urbanistici, in relazione alle aree di interazione porto-città, degli adeguamenti tecnici funzionali. Senza dimenticare la possibilità introdotta per le Adsp con piani regolatori portuali vigenti adottati prima del 1994 (Brindisi, fra gli altri), “laddove si ravvisi la necessità di realizzare opere in via d’urgenza”, di “prevedere in via transitoria la ‘definizione funzionale di alcune aree sulla base delle funzioni [portuali] ammesse’ nel piano operativo triennale”. Per la Corte, la mancata adozione per trent’anni di un piano regolatore portuale non è una responsabilità delle Autorità portuali, ma, siccome “impedisce la realizzazione delle opere infrastrutturali”, “il legislatore ha ragionevolmente affidato in via transitoria la ‘zonizzazione’ delle aree, prodromica alla edificazione di opere indispensabili per il traffico portuale, all’unico strumento di programmazione in dotazione in tali porti”. Promossa insomma la previsione che, se un’Adsp non ha adottato per 30 anni il piano regolatore, abbia tutta la convenienza a continuare a non farlo, dato che le basterà il Pot per cambiare funzioni alle diverse aree sotto la sua giurisdizione.
Restano da capire le reazioni dell’attuale Ministero, il cui orientamento sembrerebbe antitetico a quello della precedente amministrazione e volto a un rafforzamento delle prerogative degli enti locali nella materia portuale, cosa che potrebbe portare ad un nuovo intervento sulla materia.
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