Laghezza mette in guardia dalla “voglia di Stato” nei trasporti e nella logistica
Contributo a cura di Alessandro Laghezza * * amministratore delegato Gruppo Laghezza e presidente Confetra Liguria Il nostro è un Paese che perde facilmente la memoria. Ma oggi questo lusso non se lo puó permettere nessuno, in primis chi è chiamato a tracciare una rotta per la ripresa e il rilancio del Paese. E […]
Contributo a cura di Alessandro Laghezza *
* amministratore delegato Gruppo Laghezza e presidente Confetra Liguria
Il nostro è un Paese che perde facilmente la memoria. Ma oggi questo lusso non se lo puó permettere nessuno, in primis chi è chiamato a tracciare una rotta per la ripresa e il rilancio del Paese. E con loro tutti gli operatori economici che dovranno “vigilare” su queste scelte e sulle decisioni di una politica che dimentica o fa finta di aver dimenticato troppo facilmente. Lo ha certo dimenticato il Governo che nel decreto ignora le reali esigenze e il ruolo del comparto logistico e rifinanzia i rottami di Stato, ovvero Alitalia e Tirrenia, con una “mancia” anche per le Compagnie portuali, da decenni vere e proprie idrovore di denaro pubblico.
Ma il tema è drammaticamente più generale. Oggi il dibattito sul salvataggio delle imprese, annientate dalle misure imposte dallo Stato per combattere il Covid-19, sembra essersi polarizzato su una parola: statalizzazione nelle sue diverse accezioni e interpretazioni. Dalla partecipazione significativa dello Stato al capitale delle aziende in crisi, a una golden share apparentemente ideata per impedire a grandi investitori esteri di colonizzare il nostro Paese, sino alle partecipazioni statali in cui convertire aiuti e finanziamenti per combattere l’emergenza.
A mio parere è il momento che il mondo imprenditoriale faccia fronte comune e dica apertamente e senza cedimenti: NO.
Se molte aziende oggi sono alla canna del gas, con fatturati in crollo e crisi di liquidità, non è nella stragrande maggioranza dei casi per colpa o demerito loro.
Il Covid-19 certamente è stato l’elemento scatenante, ma il modo in cui in Italia si è scelto di affrontare l’emergenza, mettendo in lockdown quasi totale il sistema produttivo e paralizzando le libertà civili, ha certamente aggravato il conto per le imprese, anche rispetto ad altri Paesi europei che si sono dimostrati più efficienti sia nella gestione sanitaria che nel preservare l’integrità del proprio sistema economico.
Imprese italiane certo fragili, ma soprattutto perché schiacciate da una burocrazia opprimente e drenate da una fiscalità invasiva, che non ne hanno certo favorito la crescita e la capitalizzazione.
Quindi, quando si parla di necessario intervento dello Stato per sostenere le aziende italiane, non si parla di donazioni o di benigne concessioni (come ormai sembra essere diventato un luogo comune anche nelle dichiarazioni del Presidente del Consiglio) o di un atto di amore delle banche, si tratta di un dovere preciso dello Stato che è il maggiore responsabile della crisi del tessuto economico del Paese.
E passiamo alla soluzione proposta, che è peggiore del virus: lo statalismo.
Per ora mi limiterò a ricordare nomi e alcune curiosità nella storia del settore dei trasporti e della logistica nel quale la mia azienda opera. Si tratta di un elenco di fallimenti, di buchi di bilancio, di danni permanenti generati nel sistema economico nazionale.
Vogliamo ricordare il tanto compianto IRI e i danni che ha provocato (sino a privatizzazioni gestite a favore di pochi) nel settore armatoriale. Ci siamo dimenticati i deficit costanti di Italia Navigazione o Lloyd Triestino, compagnie della Finmare che perdevano valanghe di soldi e attuavano con i soldi altrui concorrenza sleale rispetto a operatori privati, che attraverso le tasse, le mantenevano?
Ci siamo dimenticati della Tirrenia e delle compagnie che gestivano nell’IRI i collegamenti con le isole minori, pseudo privatizzate in un quadro di concessioni e convenzioni sul quale sarà prima o poi il caso di fare luce? E abbiamo dimenticato anche il buco nero di Viamare (ideata per gestire le autostrade del mare)?
Ci siamo dimenticati di cosa erano i porti prima della riforma 84 del 1994 che ha reso possibile l’affidamento in concessione a privati dei terminal portuali, sottraendo allo Stato la gestione diretta dei moli e consentendo la nascita di imprese terminalistiche efficienti al posto di cattedrali nel deserto costruite dal pubblico, come Gioia Tauro e Voltri?
Ci siamo dimenticati delle Compagnie portuali a cui lo Stato ha per decenni ripianato i bilanci per poi renderle oggetto di un massiccio prepensionamento pagato dai contribuenti? O della burocrazia che tuttora opprime le Autorità di Sistema Portuale, che non riescono nemmeno a spendere tutti i proventi delle concessioni e delle tasse applicate a merci e navi?
Ci siamo dimenticati di Alitalia, che torniamo a nazionalizzare con una spesa di 3 miliardi, dopo aver pompato nelle sue casse 6.4 miliardi in dieci anni, e in parallelo di Swissair che a 24 ore dalla presentazione di un bilancio in rosso è stata liquidata dal governo svizzero, trovando forme di compensazione per i lavoratori e di efficientamento dei servizi aerei da e per la Svizzera?
Ci siamo dimenticati degli aeroporti in mano allo Stato, dei pasticci nelle concessioni, degli interporti in mano al pubblico, dei retroporti finanziati per diventare spesso cattedrali nel deserto, della piattaforma logistica nazionale mai decollata? Senza parlare dei vari operatori logistici pubblici, che finché sono stati in mano allo Stato hanno generato solo buchi: per citare due soli nomi Italcontainer e Cemat.
Si dirà. Ma ci sono anche i casi delle Ferrovie o di Poste italiane. Ma vogliamo andare a fare i conti, quelli veri su quanto questi colossi, oggi almeno costretti a rispondere alle leggi del mercato e della Borsa, sono costate nella storia del contribuente italiano? E tralasciamo di parlare dei Trasporti pubblici locali, vero e proprio pozzo senza fondo nella gestione di città e regioni.
Credo sia quindi venuto il momento per gli imprenditori a partire dal nostro settore (logistica, trasporti, portualità), della cui importanza strategica l’opinione pubblica sembra aver assunto finalmente consapevolezza, di ricordare a cervelli troppo distratti questo elenco dei danni, con numeri, date, fallimenti e chiedere un supporto concreto ed efficace alle proprie attività.
Leggiamo di Cura Italia, Salva Italia, Rilancia Italia. Noi ci candidiamo a raccogliere le voci di tanti imprenditori che vogliono il pubblico fuori dalle proprie aziende e che vogliono riavere dallo Stato, in un momento di emergenza, una piccola parte delle enormi risorse economiche che hanno versato nel corso degli anni, insieme a quegli spazi di libertà economica, fiscale e imprenditoriale tipici che in Italia sono stati sottratti. Confidiamo che qualcuno legga queste righe e se ne faccia interprete, in un momento in cui, fra le tante emergenze, il virus dello statalismo ci sembra il nemico più diffuso e insidioso da combattere.
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